Scritto da Massimo Bambara |
Martedì 28 Settembre 2010
Ogni trapianto porta con se dei cambiamenti e delle rinunce, delle novità e degli sconvolgimenti.
Zlatan Ibrahimovic non si è sottratto a questa regola, il suo arrivo in maglia rossonera è stato accolto con fremente entusiasmo da tutto l'ambiente, ma il suo inserimento nei meccanismi di squadra non era certo automatico.
Le ragioni sono di carattere strettamente tecnico ma anche culturale.
Se in un contesto di squadra che ha sempre avuto come segno predominante il fraseggio e l'occupazione del campo (elementi distintivi e preponderanti non solo del gioco ma anche di una filosofia societaria), inserisci il più grande giocatore al mondo nel far saltare i meccanismi difensivi avversari qualcosa paghi.
All'inizio si.
E' fisiologico.
Mutare il prorpio modo di stare in campo non è un'operazione facile, soprattutto quando dietro esso c'è una mission culturale, storica, quasi caratterizzante la genetica della maglia che si indossa.
Ibra però per rendere al meglio ha bisogno di spazi, di una seconda punta veloce che gli giochi vicina con tanti gol nei piedi oppure di una prima punta che lo sgravi dai movimenti di profondità.
Ibra per diventare il prim'attore assoluto ha la necessità di sentirsi centro di gravità polifunzionale della squadra, ancora di salvezza quando le burrasche avversarie si stanno abbattendo sui mari della difesa milanista, riferimento tattico e umano per i compagni, prima ed assoluta opzione offensiva.
Per realizzare tutto questo il Milan deve compiere un vero e proprio trapianto prima culturale e poi anche tattico.
Meno fraseggio, meno possesso, più gioco verticale, scoperta e rivalutazione della palla lunga, non più vista come lesa maestà del dna rossonero, bensì come possibilità concreta di gioco, variante considerevole, temuta dagli avversari.
Ibra sta entrando nel Milan imponendo camabiamenti che nessun allenatore finora era riuscito a far rendere accettabili.
Il Milan non si sta certo trasformando da squadra di possesso pura a squadra esclusivamente di attesa e di posizione, ma sta trovando una quadratura che si colloca esattamente a metà tra queste due ispirazioni e visioni filosofiche del calcio.
Una quadratura che sarà figlia del buon senso.
Perchè un campione come Ibra giustifica dei compromessi con la propria genetica di squadra.
Attenzione però perchè ogni trapianto ha le sue crisi di rigetto nei primi mesi.
Aspettarsele e accettarle è il primo passo per affrontarle e quindi superarle.
In questo caso il gioco vale abbondantemente la candela
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