Il famoso Dna rossonero, quello che ci faceva giocare alla grande certe partite, quello che rendeva magiche e uniche certe notti, lasciando senza parole critici e avversari, sembra svanito nel nulla, travolto dalla sensazione terribile di voler gestire il gestibile, di amministrare l’ordinario e di pensare che basti uno schioccar di dita per ritornare indietro con gli anni.
Non siamo di fronte ad un episodio purtroppo, siamo bensì in presenza della fine di quel famoso Dna europeo che aveva contraddistinto il nostro andamento nelle edizioni passate della Champions.
Nulla di scandaloso in fondo. Il mondo e la vita vanno avanti, dominare sempre in campo europeo non è cosa possibile né immaginabile, le battute d’arresto, gli scivoloni, gli anni grigi, soprattutto in Europa, ci stanno.
Fanno parte di quel fisiologico ciclo di eventi che fa parte dell’universo.
Bisogna saper accettare di aver perso quella nostra antica magia per poter ripartire nuovamente, si spera, nel futuro più prossimo.
Per fare questo però è necessario imparare dagli errori e capire che la Champions League è un mondo a parte, un emisfero di calcio pregevole dove non vince chi rischia di più, bensì chi sa usare maggiormente la testa facendo fruttare le caratteristiche dei propri campioni.
E’ di tutta evidenza, e le due partite contro lo United sono lì a dimostrarlo, che con i tre centrocampisti abbandonati a se stessi, in Europa si fa fatica perché si gioca un calcio più intenso e con minori interruzioni, i ritmi di gioco sono più alti e il livello di tensione agonistica è nettamente maggiore rispetto alla stragrande maggioranza delle partite della serie A italiana.
Se si continua ad insistere sulla strada dei tre attaccanti davanti (che non tornano mai) sempre e comunque il rischio è quello di subire delle delusioni enormi anche nei prossimi anni.
Il centrocampo è la zona nevralgica del campo, è il luogo dove le partite si decidono, andare sotto in mezzo al campo significa consegnare la partita nelle mani dell’avversario.
Il Milan del futuro deve fare delle scelte. Optare per i quattro centrocampisti oppure decidere di convincere almeno uno dei suoi uomini d’attacco a trasformarsi in centrocampista aggiunto in fase di non possesso palla.
Una specie di Kuyt del Liverpool, o dell’Henry della scorsa stagione, decisivo nel titolo blaugrana con il suo lavoro da ala tattica.
Il problema è che chiedere a Pato un lavoro del genere è una specie di blasfemia post moderna in quanto il ragazzo deve essere lasciato libero di sprigionare il proprio talento, senza incombenze tattiche di rientri difensivi, mentre Ronaldinho appare troppo pigro sia mentalmente che calcisticamente per assimilare concetti didattici di fase difensiva.
Difficile quindi trovare una soluzione.
E’ necessario fare delle scelte a mio parere, che siano difficili ma legate da un filo conduttore comune, cioè il gioco e l’identità di questa squadra, due caratteristiche che non possono prescindere, soprattutto in campo europeo, dall’equilibrio tra i reparti e dallo stare bene in campo.
La mia soluzione sarebbe un bel 4-4-2 classico con le ali larghe e Pato libero di giocare al fianco di una prima punta vera, che sia Borriello o Dzeko.
Una scelta di rottura col passato, ma che trae convinzione e forza dallo scenario europeo attuale.
Anche altre soluzioni sono possibili.
Continuare sulla strada dei tre avanti abbandonati a se stessi non è più possibile.
La squadra lo sa, perché in campo certe cose si avvertono.
Tocca a chi di dovere prenderne atto
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