una storia vera

 
Pasolini diceva che il cinema assomiglia alla vita, o meglio che questa assomiglia al cinema nel suo scorrere in un lungo piano-sequenza che solo nel momento estremo acquista senso; quando la coscienza, come una moviola, vede riemergere selezionati i momenti unici, determinanti, accostati in un disegno pregno di significato.

È questa l'operazione che compie Alvin giunto all'estremità della sua esistenza: le praterie percorse alla velocità del tosaerba sono le fasi della vita percorse al ritmo dell'esperienza.
I lunghi momenti di silenzio, di raccoglimento, di "passaggio" fluido sulle corde della vita, lasciano frammentariamente spazio agli sporadici incontri (la giovane incinta, il sacerdote) che sono pretesto della memoria per ristabilire i momenti chiave della vita di Alvin, i momenti in cui il cammino non si sviluppa più sulla strada tesa verso l'orizzonte, ma nella profondità del vissuto.
Il tempo del fluire si arresta.
Il tosaerba viene lasciato al bordo della strada.
Scende la notte e scoppietta un piccolo falò; una storia mai narrata riporta il tempo dell'uomo alla qualità dei propri dolori, dei propri desideri, delle proprie paure, del proprio coraggio.
Così il ritmo di una vita dispiegata su trecentocinquanta miglia di strada dallo Iowa al Wisconsin è il contenuto del film.
Il suo incedere ostinato a segnare gli incontri e le rivelazioni di Alvin.

Dedicato a chi pensa che: "Non vi è nulla di intrinsecamente sublime in un oggetto sublime".
Lynch lascia allo spettatore il tempo di farsi incantare da una miriade di oggetti "sublimi": il cielo stellato, il temporale, un campo di grano, una bottiglia di birra, la vecchia motofalciatrice e perfino la biancheria stesa!
L’anomalia di questa opera estremamente ed insolitamente omogenea di David Lynch, è quella di non apparire neanche come un lavoro del regista, perché priva di tutte le caratteristiche che hanno contraddistinto titoli come “Eraserhead”, “The Elephant Man”, “Velluto Blu” e “Strade perdute”, difatti, “The Straight Story” è privo di qualsiasi allusione a tonalità cupe e dark che hanno sempre delineato la filmografia di Lynch.
Però, c’è da fare molta attenzione ad un particolare: i demoni, i fantasmi, i conflitti interiori che ci ha sempre raccontato Lynch attraverso la sua “macabra” e vivida creatività, sono presenti anche in “The Straight Story”, solo che, a differenza di come accadeva nei titoli sopra citati, qui sono quasi invisibili.

Alvin Straight, interpretato da un magistrale Richard Fansworth, conserva in séi terribili ricordi del suo passato come soldato nella seconda Guerra Mondiale, della quale discuterà con un altro personaggio secondario incontrato durante il suo percorso; la figlia di Alvin, Rosie, la fantastica Sissy Spacek, balbuziente e “leggermente ritardata”, evoca sentimenti estremamente dolci e sottili, così come la storia stessa della pellicola, che racconta come Straight sia riuscito, lottando contro la fatica, a raggiungere il fratello Lyle (Harry Dean Stanton) improvvisamente colpito da un infarto, con il quale non si vede da dieci anni; il tagliaerba sul quale viaggia Alvin è un altro elemento che identifica la forza morale e la determinazione di questo grande uomo, che ha vissuto un’intera vita, solo per accorgersi che ne dovrà immediatamente iniziare un’altra, e forse, il messaggio che il finale del “film” di Lynch (metto le virgolette attorno alla parola film perché non considero le Opere di Lynch come veri e propri film, ma qualcosa di più complesso) ci vuole comunicare, perché probabilmente la pace di cui ho accennato in precedenza, sta proprio nella riconciliazione tra due fratelli, perché, come dice lo stesso Alvin, nessuno ti conosce meglio di un fratello.

Dedicato a chi pensa che: "Non vi è nulla di intrinsecamente sublime in un oggetto sublime"...


 

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